di Filomena Baratto
Vico Equense - Avigliano è una stradina stretta e tortuosa che inizia dal tabernacolo della Madonna di Caporivo a San Salvatore e va verso San Francesco, procedendo a tornanti fino al convento. Nel punto più alto in cui comincia, davanti al tabernacolo, sembra di essere immersi nel primo capitolo dei Promessi Sposi con i bravi proprio al bivio, mentre Don Abbondio avanza verso di loro per la strada di fronte. La stradina ha il suo punto nevralgico davanti a un palazzo, dopo poco Caporivo, che un tempo era abitato da Donna Bianchina, Don Alberto e Don Aniello. Dall’altro lato della stradina, un altro agglomerato di case e terreni, proprio di fronte al palazzo e, in fondo, un cancello diventato rossiccio per la ruggine, intatto come allora, ancora adesso, dopo diversi decenni. Qui, quattro case con le “pezze”, una stradina asfaltata, case nuove e ruderi ristrutturati. Una volta le case qui erano grandi e spaziose, c’erano cantine e palmenti, orti e pollai, stalle e vigne, e prati e siepi, distese d’erba e di alberi. Ho scoperto che col tempo tutto rimpicciolisce, prima era grande ed esteso, per il semplice fatto che da bambini le cose sembrano enormi, poi da adulti, con una diversa dimensione dello spazio e della vita, cambia anche la realtà e il ricordo. Diverse volte, a piedi, ho raggiunto l’arco davanti al cancello arrugginito, come chi cerca qualcosa che ha perso, e lo sguardo si smarrisce a non trovare le cose di un tempo, ma solo ricordi. La stalla di una volta non c’è più, al suo posto ho trovato travi divelte, calcinacci e terreno, erbacce e scale invase dalla gramigna e dalla parietaria. Con gli occhi e con la forza del ricordo avrei voluto mettere ordine, colorare i muri, passare l’asfalto e renderlo come allora quando c’erano le stalle con le mandrie, un pagliaio e una scala per andare al solaio. Là c’era la stalla, di fronte l’alveare di Don Alberto e, su per il muretto di cinta, i prati e gli orti, gli alberi da frutta e tanti noci, alti e ampi fino a coprire, con la loro ombra, le coltivazioni. Sento ancora il sibilo del vento correre tra i rami insinuandosi in ogni dove come un lupo famelico in cerca di prede.
Qui passavo in rassegna le stagioni vivendone anche le più piccole sfumature. Avevo imparato il loro modo di annunciarsi, i venti, le piogge, le indicazioni desunte dall’aria, dai profumi. Qui le stagioni hanno la loro culla fatta di prati, di fiori a ciocche come i narcisi, le viole, i papaveri, le mammole, le primule, gli anemoni, le fresie… L’erba qui cresceva alta, circondando la base degli alberi da una corte di fiori, l’edera si avvinghiava ovunque, veloce a costruire ponti e tetti di verde. In autunno, dopo le piogge, le chiocciole scivolavano sulle foglie facendole pendere da un lato ed era divertente far ritrarre le loro antenne solo con un dito che correva sulla loro groppa. Ma il tempo migliore è in primavera. Una volta c’erano grandi fermenti nel preparare le palme dei confetti, i dolci pasquali, le provviste. La vicina era un’ottima massaia. La sua casa sapeva dei profumi delle marmellate, dei dolci fatti in casa, dei liquori, delle torte e delle ciambelle. Una donna dolce e serafica, con un sorriso stampato sul viso e un rossore sulle guance. Non l’ho mai vista arrabbiata, né alterata, la flemma e la pazienza albergavano in lei anche davanti alle difficoltà. Ho saputo in seguito essere una mia parente. Suo marito era un po’ più arcigno, brontolone, ma di tanto in tanto lasciava intravedere la fila dei denti ben allineati, accenno di sorriso che gli metteva il sole addosso. E quando si apriva tirava di bocca una barzelletta o un aneddoto sempre di grande riflessione. Dei nostri vicini ricordo la loro vita organizzata e abitudinaria, dove gli orari erano più temuti e mantenuti della ferrovia dello stato. Sembrava una famiglia inglese, con ritmi diversi dai nostri, come dei soldati. Avigliano era quel mondo che sapeva di antico, fatto di casa e lavoro nei campi, di terre coltivate e animali da governare. C’era sempre una sposa a cui tirare i confetti, un defunto a cui fare visita, un ammalato a cui dare sollievo, e poi il giro delle botteghe per la spesa a fine settimana. Ancora le usanze e le abitudini, i riti, le visite, i giochi all’aperto, il “momento”, ovvero il mandriano, che arrivava quando meno te lo aspettavi con il toro per la monta. E poi l’odore del fieno appena tagliato il cui profumo si fissava nelle narici, delle stalle con mucche ricche di latte, di Candidina la lattaia che con la sua “Ape” tre ruote andava in giro a raccogliere il latte…E Frate Cosimo sempre di passaggio a prendere qualcosa per questa o quella causa. Via Avigliano può arrivare a Vico attraverso la stradina interna di via Arvitiello. Una volta c’era un grande silenzio per queste strade, tranne in certi momenti della giornata o nei pomeriggi d’estate, dove, più che frastuono, si sentiva lo scorrere dei lavori nel terreno. Qui i giochi con gli amici, le prime cadute dalla bicicletta, le corse, le prime delusioni, le persone care. Avigliano resterà sempre un mondo antico, ricco di voci di coloro che lo hanno abitato che, pur non essendoci più, sono ancora lì sugli usci delle loro case: Don Alberto, Donna Bianchina, Cristinella… Avigliano sa di voci ed echi del passato, ma anche di nuovo. Terre trasformate, case ristrutturate, terreni divisi, rimpiccioliti, sentieri asfaltati. Di questo mondo antico resta il cancello arrugginito sotto l’arco con due scalini che vanno nel viale, come un tempo e, alla sua vista, si ripresentano sempre tanti ricordi. La mia Avigliano resterà per sempre il mio luogo in assoluto e chi crede di essere cittadino del luogo che abita, si sbaglia di grosso, siamo cittadini dei luoghi della memoria che conosciamo solo noi, che restano sempre dentro e nessuno ci può togliere. Credo sia stata proprio la forza del ricordo di questo luogo a ricondurmi qui e credo di essere più legata io a questo luogo da cui sono rimasta lontana per tanto tempo, di tutte le persone che vi abitano da una vita.
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