di Filomena Baratto
“Qual è la cosa più bella che hai fatto ieri?” “Mi sono divertito a fare il pane, abbiamo fatto tutti insieme il pane a casa.” La risposta di un ragazzo in tempo di quarantena. E non è stato l’unico. In tanti hanno sfornato pane in questi giorni. Le diete lo avevano abolito: troppi carboidrati fanno male e rispetto alla pasta ha un maggiore apporto calorico a rilascio glicemico veloce. Ora il pane ritorna, non importa in che formato o di che tipo, basta il suo sapore, la fragranza, la freschezza, possibilmente caldo. Non c’è niente di più gustoso che addentarlo come se ricevessimo un abbraccio caloroso. Il pane è affetto, ci nutre, ci coccola, in mancanza di abbracci e baci, ci dà la dose quotidiana di benessere, consolandoci come una madre. Quante sensazioni vissute con le nostre fette di pane e zucchero bagnato, impregnato di olio, o traboccante di marmellata o di nutella. Le nostre colazioni scolastiche ritornano alla mente con quei pezzi cafoncelli pieni di mortadella, pomodoro, con il tonno che rigava olio dentro le maniche arrivando fino ai gomiti. Anche vecchio era buono, abbrustolito, croccante. Quello secco poi non si buttava mai, serviva inzuppato nel latte o per farne polpette e preparare un buon rustico. Il pane fa parte della comunione dei cristiani ed è sacro. Va bene con ogni altro alimento, lo gustiamo come spuntino, accompagna i nostri piatti, stuzzica la fame, ci dà quello sprint necessario per arrivare a pranzo.
Abbiamo imparato a conservarlo nelle buste, a congelarlo, a dividerlo per quanti giorni deve servire, ma mai abbiamo lasciato fuori il pane dalle nostre tavole. Da sempre è l’alimento vitale. Farina acqua e lievito, tre ingredienti per il cibo più antico al mondo. In questi giorni di emergenza ritorna il pane fatto in casa, con un gusto che forse si era perso. Nasce dal timore che possa finire, che i supermercati non ne siano riforniti, che non si possa andare a far la spesa. Machiavelli affermava che “la necessità aguzza l’ingegno” e in questi giorni di emergenza le nostre case si trasformano in panetterie, pizzerie e pasticcerie. Anche i bambini amano impastare, così imparano la pazienza, l’attesa della lievitazione e il lavoro fatto con le proprie mani, come una volta. Sazia già ad averlo sulla tovaglia, sotto gli occhi, mentre mastichiamo. Panificare è far nascere qualcosa dal niente: controlliamo se e quanto cresce, se siamo stati bravi a impastare, se abbiamo una buona mano. E allora il pane sarà più buono se condiviso con gli altri, forse in pranzi meno elaborati di prima ma più saporiti, apprezzando i sapori di una volta.
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