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Carlo Fermariello e Giorgio Napolitano a Vico Equense |
di Matteo Cosenza Corriere del Mezzogiorno
C'erano una volta Giorgio e Giorgione. Sulla
loro identità i comunisti napoletani, dai
massimi dirigenti agli operai, non si
sbagliavano mai e, nella familiarità che
regnava in quel mondo («saluti fraterni»
concludevano qualsiasi missiva) era normale
che molti, se non tutti, parlassero di loro due
chiamandoli appunto per nome. Se Giorgione,
Amendola naturalmente, era un monumento,
anche fisico, di vita, famiglia, storia e politica,
Giorgio Napolitano era diventato da subito, da
quando nel 1945 si iscrisse al Pci, il dirigente
di maggiore peso e prestigio. Ad accoglierlo
nella sede di San Potito erano state figure di
primo piano come Mario Palermo e Maurizio
Valenzi. Il partito comunista divenne da subito
la sua casa perché in esso ritrovò non solo la
forza politica più determinata al cambiamento
ma anche quel respiro culturale maturato
negli anni del liceo Umberto. I suoi compagni
di classe o di liceo avranno molto da dire già
allora e poi nel dopoguerra nei campi più
svariati; i nomi sono quelli più volte ricordati:
Giuseppe Patroni Griffi, Raffaele La Capria,
Francesco Rosi, Antonio Ghirelli, Maurizio
Barendson, Luigi Compagnone, Massimo
Caprara e altri. Questo pezzo fondamentale
della biografia di Napolitano richiama di nuovo
il percorso di Amendola, il cui approdo alla
casa comunista fu determinato da una scelta
politica (riteneva quel partito l'organizzazione
più affidabile nella lotta al fascismo) e
culturale (la sua frequentazione della casa di
Benedetto Croce dice tanto).Ed è quasi
scontato sottolineare che i due Giorgio erano
e saranno sempre profondamente legati a
Napoli. Da questi cenni biografici si capisce il
capolavoro politico che riuscì a produrre il Pci
a Napoli. Era per costituzione il partito degli
operai, impegnato a difendere gli interessi
delle classi più deboli, ma al tempo stesso
riuscì ad avere l'egemonia culturale nella
città. Sarà questo il tratto indelebile di una
storia la cui fine sarà suggellata dalla
scomparsa o dal ridimensionamento delle
fabbriche.
L'alleanza tra la classe operaia e
ceti medi, gli intellettuali, le professioni e il
mondo dell'università sarà un'intuizione che
produrrà per decenni un'attività politica ricca
e articolata accompagnata dalla formazione di
una vasta platea di dirigenti di lungo corso.
Napolitano fu naturalmente e da subito un
leader valicando ben presto i confini della
città e affermandosi come un dirigente
politico nazionale e progressivamente un
uomo delle istituzioni. In una cavalcata
inarrestabile fino alla carica più importante. Il
fatto che sia riuscito in questa impresa sulla
carta molto complicata non significa che sia
stato un personaggio accomodante. Anzi, nel
partito a livello nazionale e soprattutto a
Napoli, era con Gerardo Chiaromonte, Andrea
Geremicca, Valenzi, Carlo Fermariello e tanti
altri, il leader riconosciuto dell'area riformista
in contrasto con quella operaista (Bassolino e
altri), amendoliani contro ingraiani. Insomma
nel Pci non c'erano ufficialmente le correnti,
ma qualcosa di simile sì. Poi c'era la base che
equilibrava i rapporti, perché più forte era il
legame con operai, impiegati, disoccupati e
maggiore diventava il senso di responsabilità
che riconduceva quasi sempre, secondo la
regola del centralismo democratico, anche le
tensioni profonde ad unità più o meno
convinta. Il fatto è che Napoli ha
rappresentato uno spaccato più che
significativo e importante della storia del Pci,
e Napolitano, anche quando non stava più in
città, ne è stato un protagonista. Per quanto
di modi a primo impatto non popolari riusciva
a stare a suo agio nell'alto e nel basso del
partito. Probabilmente non c'è quartiere o
città della provincia in cui non sia stato per un
comizio, una riunione, un incontro con i
compagni. Aveva ritmi di lavoro
impressionanti, accompagnata da una visione
tecnica delle cose evidentemente ereditata
dal padre avvocato. Chi scrive lo ricorda negli
Anni Sessanta nella sua stanza di segretario
della federazione napoletana in via dei
Fiorentini mentre svolgeva
contemporaneamente molteplici attività tra
appunti, telefonate, documenti e
conversazioni e a domanda ebbe dalla
segretaria una risposta eloquente: è sempre
così. La sua elezione a presidente della
Repubblica quando il Pci non esisteva più fu
comunque un evento spartiacque nella storia
repubblicana. Nel mondo di sinistra
napoletano, comunista o post-comunista, ci fu
grande entusiasmo, quasi come se fosse stato
conquistato il Palazzo d'Inverno. Non era e
non poteva essere così, ma fu anche chiaro
che Napoli in qualche modo conquistava una
centralità. Che Napolitano curò di assicurare
con le sue visite continue e i soggiorni a Villa
Rosebery. Ne sanno qualcosa i suoi vicini,
Maurizio e Mirella Barracco, che ospitavano,
spesso ricambiati, il Presidente e sua moglie
Clio. Ma anche le passeggiate per il
lungomare, il caffè da Gambrinus, le visite a
luoghi significativi e anche la conoscenza
diretta dello stato della città ormai erano dati
acquisiti per i napoletani. Al punto che il capo
dello Stato non si risparmiò un intervento
clamoroso dinanzi alle montagne di rifiuti
nelle strade cittadine. E così mentre la sua
prima visita a Napoli aveva fatto
significativamente tappa in via Manzoni
nell'abitazione del suo amico e compagno di
una vita, il mitico sindaco Maurizio Valenzi,
nei confronti di un altro sindaco, in quel
momento presidente della Regione, Antonio
Bassolino, non fu tenero e gli effetti furono
inevitabili, come con amarezza lo stesso ex
sindaco ha raccontato in uno dei suoi libri, Le
Dolomiti di Napoli . Una vita lunghissima e
ricchissima, quella di Napolitano. La passione,
la politica, l'Italia e Napoli quasi come la
colonna sonora della sua esistenza. E a Napoli
sono tanti quelli che hanno un ricordo, una
testimonianza da raccontare perché lui Napoli
l'aveva anche nel nome. Per restare in tema
un ricordo personale. Nel gennaio 1981 ai
funerali di mio padre, l'operaio Saul del
cantiere navale di Castellammare, fu
Napolitano a svolgere l'orazione funebre. E noi
sulla tomba incidemmo la frase più
significativa del suo discorso: «La moralità
operaia ».
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