mercoledì 25 giugno 2025

«Al fronte in Ucraina per mostrare la verità»

Abel Ferrara
Al Social World Film Festival di Vico Equense Abel Ferrara ospite d'onore con il suo docufilm "Turn in the wound"  

di Alessandra Farro - Il Mattino

Vico Equense - La guerra viene mostrata nella sua violenza, la sua crudezza, la sua disperazione e la sua irragionevolezza in «Turn in the wound» di Abel Ferrara, che si racconta al tredicesimo «Social world film festival», in corso a Vico Equense fino al 28 luglio sotto la direzione artistica di Giuseppe Alessio Nuzzo. Il regista americano coinvolge nel documentario, dedicato al suo collaboratore ed amico Ken Kelsch, reduce della guerra in Vietnam e recentemente scomparso, anche Patti Smith, che cerca con la sua vena poetica e la sua musica di trovare una giustificazione alla barbarie del conflitto in Ucraina, mentre i cittadini di Kiev si confessano di fronte alla telecamera, senza mascherare il dolore con cui convivono quotidianamente. Da dove nasce l'esigenza di andare in Ucraina a filmare? «Sono un regista statunitense, vivo a Roma da 12 anni e mia moglie è moldava, ho amici ucraini e l'Italia è spaventosamente vicina ai luoghi del conflitto. Ho sentito che tutto questo mi riguardava, da essere umano e da artista, così ho avvertito l'esigenza di andare sul posto a capire cosa stesse succedendo. Mi ero stancato delle fake news, delle narrazioni falsate della realtà. Così sono andato a Kiev un paio di volte, per una settimana ciascuna. Intanto, stavo girando un documentario su Patti Smith che, insieme al Soundwalk Collective, cantava versi di Artaud, Daumal e Rimbaud. I due lavori sono partiti in maniera separata, poi hanno iniziato a parlarsi. Non so spiegarne la ragione: ho seguito il mio istinto e ne è venuto fuori questo racconto. Il documentario è come una performance sonora-visiva, attraverso cui mi sono connesso coi poeti di cui canta Patti». Perché quel titolo, «Rivoltare la ferita»? «Il titolo fa riferimento allo spargimento di sangue, dunque all'elemento cristologico e sacrificale, come spiego all'interno del film, necessario per affrontare un tema così profondo, difficile e misterioso come quello di esseri umani che uccidono altri esseri umani senza una ragione, qualcosa di folle ed inspiegabile razionalmente».

Ha girato con una troupe ucraina. «Ho portato con me dall'America soltanto due collaboratori, poi ho deciso di reclutare gente del posto per interagire in maniera più diretta con le persone che mi avrebbero raccontato le loro esperienze: i bombardamenti, la prigionia e le ferite. Come ho già fatto lavorando al documentario "Napoli Napoli Napoli", mi sono semplicemente recato in una città e ho parlato con la gente che la abita». Quanto è stato difficile confrontarsi con le macerie della guerra? «Non ci sono state parti davvero difficili per me. Ho vissuto l'intera esperienza come un'opportunità per imparare cosa stiano passando quelle persone, che vivono letteralmente in un incubo. Il punto non è quanto possa essere difficile per me essere lì, ma quanto per loro sia atroce convivere ogni giorno con la guerra». Che mondo è questo in cui ogni giorno si apre un nuovo fronte bellico, in cui ogni giorno decine di bambini muoiono sotto le bombe? «Viviamo in un incubo insano, un gioco dettato da malati di mente che non sa fare altro che generare violenza e spargimenti di sangue innocente. Viviamo nel peggiore dei mondi. Le persone che sono al potere sono inumane. Io so di essere un privilegiato, perché ho avuto la possibilità di viaggiare e realizzare i miei desideri, come la maggior parte dei miei amici, il cui problema principale è prendersi cura della propria famiglia e del proprio lavoro, ma so anche che il mondo è pieno di crudeltà che andrebbe fermata. La terza guerra mondiale è già iniziata, magari non in Africa, ma solo perché non interessa a nessuno. Rischiamo l'olocausto nucleare. Io non so dare risposta a tutto questo orrore, so soltanto che lo stiamo vivendo ed è terribile».

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