Giuseppe Abbagnale |
Seduto al bar del Circolo Nautico Stabia, Giuseppe Abbagnale assapora una granita al limone con gusto, come un ragazzino. Questa, d'altronde, è casa sua: «I trofei esposti nelle vetrine li abbiamo vinti quasi tutti noi...». Il plurale, superfluo sottolinearlo, ricorda che in barca trionfava col fratello Carmine e Peppiniello Di Capua. Li allenava lo zio, Giuseppe La Mura. Il terzo fratello, Agostino, con altri equipaggi ha vinto 3 ori olimpici. Una storia di famiglia con dentro tutti gli ingredienti dei grandi atleti del Sud: radici, umiltà, forza. Abbagnale, lei è una leggenda dello sport internazionale, il suo nome evoca trionfi indimenticabili e oggi è presidente della federazione canottaggio. Eppure si comporta come uno dei tanti… «Il circolo è la casa che mi ha dato un'opportunità. Ho saputo coglierle, ma a questo posto devo molto. Ho un impegno morale: è giusto che le stesse opportunità vengano date ad altri». Il molo stabiese sembra fermo nel tempo: lo popolano ormeggiatori e pescatori, all'alba alcuni canottieri escono per l'allenamento. Ricorda gli inizi? «Avevamo solo due barche per allenarci. Bastarono. Eravamo un gruppo con volontà e talento, trovammo un presidente che apriva allo sport ed un allenatore che sperimentava. Arrivò tutto poco per volta: la convocazione ai campionati italiani, la prima vittoria, gli europei, i mondiali e le olimpiadi». Negli anni Ottanta avete rivoluzionato il canottaggio... «Oggi però viviamo il paradosso che nell'ambito cittadino non viene riconosciuto il nostro ruolo. Dovremmo essere un fiore all'occhiello, così non è. Questo posto ha tolto giovani dalla strada, ha permesso di fare sport gratis ed a molti di entrare nei gruppi militari e garantirsi un lavoro».
Lei non l'ha mai abbandonato: oggi vive a Santa Maria la Carità, poche centinaia di metri dalla casa dei suoi genitori. «Sono attaccato alle origini. Per restare qui, io e Carmine non accettammo le proposte dei corpi militari. Io sognavo di restare nel mondo dello sport dopo la carriera da atleta. Pentiti? Ci sono stati momenti difficili». Famoso il vostro appello dopo la medaglia olimpica: dateci un lavoro. «Laureato all'Isef, facevo domanda per insegnare, ma in graduatoria continuavo a scendere. E allora allargai la domanda a scuole di altre regioni. Si scatenò un putiferio, avremmo dovuto lasciare Castellammare prima delle Olimpiadi di Seul e molti si adoperarono per trovare una soluzione. Oggi lavoro in banca, Carmine alla Regione e vive a Castellammare. Di solo canottaggio non si può vivere». Altrove sarebbe stato più facile? «In alcuni contesti le complessità aumentano, però l'impegno premia sempre. Magari serve più tempo, ma prima o poi si arriva». È stato il "leone" stabiese: mai soprannome più appropriato. «Buono d'animo ma con un carattere irascibile. A dire il vero al circolo mi chiamavano morsicatore, perché in barca quando mordevo la preda non la lasciavo più». Dopo due ori e un argento olimpico ruppe con La Mura: l'aveva messa tra le riserve ad Atlanta' 96. «Mio zio è un secondo padre, ho trascorso più tempo con lui che a casa. Ma non ci stavo a fare la riserva nell'otto. La frattura s'è ricomposta, i sentimenti sono talmente forti che uno screzio non bastò per intaccarli». Oggi La Mura è direttore tecnico della nazionale di canottaggio, che ha riportato sul podio olimpico con i due bronzi di Rio. «Quando mi candidai, posi una sola condizione: averlo nei quadri dirigenziali. I nostri allenamenti sono stati copiati da tutti, molte nazioni che oggi dominano la scena ancora lavorano sulla base delle metodologie portate da noi nel canottaggio. A Rio è andata bene, siamo partiti nel 2012 da un livello molto basso, c'era la necessità di ricostruire la squadra e oggi ne abbiamo una giovane e di valore. A Tokyo vogliamo migliorare». Cosa serve al movimento azzurro? «Una base sempre più ampia, tanti equipaggi di buon livello tra i quali scegliere i migliori. Le maggiori difficoltà riguardano il budget, in Gran Bretagna è di 32 milioni di sterline, in Italia di 2,5 per la squadra olimpica e 5 totali. Facciamo fatica a reclutare ragazze non perché manchino, ma perché scelgono sport che conoscono a scuola, come il volley». È vero che ai giovani manca la "fame" che avevate voi? «È più difficile trovare ragazzi disposti a sacrificare i loro anni migliori per una disciplina sportiva». Il momento più difficile della sua vita ha riguardato suo figlio Vincenzo, squalificato per 16 mesi alla vigilia di Rio per aver saltato 3 controlli antidoping. «Vicenda che mi ha messo in difficoltà, come padre e presidente federale ho dovuto prendere la decisione non facile di accendere i riflettori su quanto accaduto, anche per far capire all'opinione pubblica che non si trattava di una vicenda di doping. Oggi Vincenzo è rientrato in nazionale, avrà bisogno di tempo per tornare al vertice». A 58 anni, come immagina il suo futuro, Abbagnale? «Resterò nell'ambito sportivo, di certo non rinuncerò a questa che è stata prima di tutto una grande passione».
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