di Filomena Baratto
Vico Equense - Quando voglio essere coccolata mangio la pasta, a cui do una funzione catartica e regolatrice, materna e protettiva. Una volta era bello mangiare tutti la pasta a tavola, oggi, con le varie diete in atto nella stessa casa, la pasta è un lusso. Anche la confezione che la racchiude è diventata fine, per dire “ricordati che stai mangiando la pasta, qualcosa di speciale”. Non c’è più tempo per fare quelle belle paste ai sughi, imbottite, che quando ti sedevi a tavola era come cominciare a parlare col tuo piatto. E nemmeno la si può mangiare spesso, anche se la preferisco a tanti stupidi alimenti mangiati credendo di fare una buona dieta. Un piatto di pasta sazia e non ci fa aprire il frigo continuamente dopo pranzo, per aver mangiato poco. Ma io non ci rinuncio e ho anche il mio cuoco: mio padre.
Mio padre gradisce i funghi e come lui anch’io. C’è una ricetta che amo preparare, se proprio ho l’urgenza di un piatto di pasta: le penne ai funghi col pomodoro.
Ho sempre un barattolo di funghi da qualche parte, di Basilicata, essiccati, che mi procura mio cognato, esperto in materia; o qualche busta di funghi nel freezer raccolti intorno a tronchi di noci tagliati di queste zone. Raramente mangio funghi confezionati e comprati al supermercato. E non mi importa se siamo in autunno o in estate, il fungo, soprattutto se conservato bene, si presta ad ogni stagione.
Le penne ai funghi che prepara papà sono ancora più buone che se le facessi io. Mi piace stare in cucina insieme a lui, tra pentole, fornelli, risate e assaggi vari. Lo guardo mentre si dà da fare.
Mette i funghi in padella con olio, aglio e prezzemolo, aggiunge un po’ d’acqua e un buon vino bianco e fa cuocere a fuoco lento. Mentre prepara i funghi, vado a controllare se ci sono le penne e nel vedere un pacco di pasta integrale, mi rendo conto di quanti progressi abbiamo fatto da quando esisteva solo il grano.
La nostra dieta mediterranea ha un alimento principe di cui nessuno può fare a meno. Chi non la mangia, non solo non sa cosa perde, ma prima o poi ha bisogno del suo affetto, del suo abbraccio, di quello stemperarsi nel sugo e magari rotolarci anche del pane e chi se ne frega se si può o meno, se il galateo lo contempla, se la dieta lo permette, piace a tutti quel rito finale di intingere il pane nel sugo, come fosse un sacrificio o un dovere cui assolvere.
Oggetti che potevano essere utilizzati per fare la pasta sono stati trovati in una tomba etrusca risalente al IV secolo a.C. C’è anche chi insiste che abbia origini cinesi o arabe. Nel Jerulam Talmud, e siamo al V sec. a.C., c’è in aramaico un dibattito sulla pasta e se sia prevista dalla legge Jewish. La pasta qui, viene detta itriyah, dal greco itrion. Ecco le penne…”Che tipo di pasta avevano gli Etruschi? Oggetti per la pasta nella tomba! Mah! Nella tomba io ci vorrei la padella, quella piccola per le crepes” e papà si sganascia dalle risa e mi risponde che non sarebbe male, invece, la moka per il caffè. Poi conveniamo per il cucchiaino, un oggetto elegante, magari d’argento. Il bello dei nostri discorsi è che partono da un punto e non si sa dove arrivano, ma ci divertiamo un mondo. Intanto che parla, mette il pomodoro in padella con olio e aglio: tanti pomodorini coprono il fondo e li fa cuocere lentamente schiacciandoli con la forchetta. Il pomodoro comincia a evaporare, addensandosi. A metà cottura aggiunge sale e foglia di basilico. Quando il basilico appassisce, l’aglio ingiallisce e la polpa si unisce ben bene con l’olio, ecco che la maestria di mio padre prende il sopravvento, spegne il fuoco e con una flemma che lo contraddistingue, prende grattugia e parmigiano e lancia a mo’ di cacciabombardiere dall’alto, bombe di formaggio di grosse proporzioni che vanno ad adagiarsi al suolo su un mare di polpa tirata, che a vederla fa venire fame anche ai sazi. Quando tutto è coperto di parmigiano, mi guarda soddisfatto. Se a questo punto gli dicessi di aver cambiato idea e di non volere più la pasta, sarebbe una vera offesa.
Finalmente la pasta è pronta e anche la tavola e a papà luccicano gli occhi. Versa le penne nella padella dei funghi, poi aggiunge il pomodoro diventato una crema col parmigiano e spadella tutto. Papà prima di sedersi prende il suo vino di “sabato”. Mi guarda col piatto fumante tra il soddisfatto e l’ironico e mi dice: “Penne con funghi alla potechellese”, per chi non è del posto, significa di via Botteghelle, in località San Salvatore.
Adesso che sta mangiando, ripensa a quanto ho detto e comincia a precisare: “Sono tutte idiozie, la pasta è nostra e non si discute”. Gli ricordo che la pasta entrò ufficialmente in Italia nel 1295, con Marco Polo di ritorno dalla Cina. A quell’epoca la pasta veniva chiamata macaronis dal greco makar. E fu proprio la pasta che trovarono, nel 1279, nell’inventario di beni di un soldato genovese, cioè prima ancora del ritorno di Marco Polo. Ma fu a Napoli nel 400, che cominciò la vera produzione di pasta e il suo commercio. Papà mi ascolta mentre giunge all’ultimo pezzo nel piatto e mi versa un bicchiere di vino da berci su. E posso garantire che non c’è proprio niente di più buono che un bicchiere di vino su un piatto gustoso.
Gli racconto del film di “Francesca e Nunziata” dove si parlava di pastai a Napoli e che la nostra pasta fa il giro del mondo. “Ma la pasta non avrebbe queste gambe se qui non l’avessimo sposata a tanti piatti gustosi, tante ricette, tante varianti e tanta fantasia”, aggiunge mio padre “L’arte della cucina è cosa nostra, fatta con ingredienti genuini, e anche uno stomaco adatto datoci dall’aria buona”. Come dargli torto, davanti a questo piatto, anche i morti resuscitano.
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