Fonte: Luca Ricolfi da Il Mattino
C’ è una cosa che sempre più sovente mi colpisce, quando le cronache riportano fatti di violenza, non necessariamente di natura sessuale; il silenzio assordante sulle nostre responsabilità di adulti. Per responsabilità di adulti non intendo le responsabilità immediate, dirette, che singole persone possono aver avuto m uno specifico episodio violento, bensì quelle indirette, che passano attraverso la parola, i modelli educativi, gli stili di vita e di consumo. Più in concreto: la responsabilità che le attuali generazioni di adulti portano per il modo in cui hanno fatto crescere e lasciato vivere i loro figli. In che senso, o meglio in quali occasioni, noi adulti abbiamo una responsabilità? In tutti i casi nei quali, oltre al comportamento criminale di un singolo (l'autore del delitto), c'è una leggerezza (della vittima) per evitare la quale noi, come generazione, non abbiamo fatto abbastanza o, temo io, abbiamo fatto e continuiamo a fare l'esatto contrario di quel che dovevamo fare. Prendiamo il recentissimo caso di Roma. Una ragazza finlandese, uscita alle 4 del mattino da un pub in cui aveva trascorso la serata, viene stuprata da uno sconosciuto dal quale aveva accettato un passaggio su un'auto (poi rivelatasi inesistente).
È ovvio che, in linea di principio, uno avrebbe il diritto di girare in qualsiasi quartiere di Roma a qualsiasi ora senza essere derubato, stuprato, violentato o aggredito. Ma è una elementare regola di prudenza non accettare passaggi da sconosciuti, da soli e in piena notte, in Italia come in qualsiasi paese del mondo. Ma la vera domanda è: perché l'ha ricordato? Perché si può sentire il bisogno di far notare una cosa tanto ovvia? La mia risposta è che, se si sente il bisogno di ricordare una regola ovvia, è perché ovvia non lo è più, o non lo è più per tutti. Il senso comune non è più comune, a quanto pare. O meglio, le regole del senso comune sono pienamente condivise e ribadite da tutti in certi casi, in altri no. Se dimentico di inserire l'allarme e mi svaligiano la casa, nessuno ha dubbi sul fatto che ho commesso un'imprudenza. Ma se qualcuno mi aggredisce o mi violenta alla fine di una notte di sballo, mentre giro da solo in un quartiere degradato, scatta il timore che, sottolineando la mia imprudenza, si possa fornire una sorta di giustificazione morale, o di attenuante, all'atto di aggressione che ho subito, secondo l'odiosa formula «se l'è cercata». Lo stesso meccanismo di autocensura scatta se una ragazza o un ragazzo si suicidano dopo aver messo su YouTube un video hard che li riprende durante un rap- porto sessuale; si teme che, dicendo che è stata una grave leggerezza girare il video e condividerlo, si mettano in secondo piano le responsabilità dei veri colpevoli, che sono gli amici che hanno fatto circolare le immagini hard. Il timore (alquanto illogico) di alleggerire indirettamente la posizione dei «cattivi», però, non è l'unica motivazione che porta a glissare sull'imprudenza delle vittime. C'è anche un'altra e più sottile motivazione, ed è l'idea che, invitando alla prudenza le vittime, si ponga un limite indebito a una sorta di diritto fondamentale, non scritto ma saldamente cablato nella costituzione materiale del nostro tempo, il diritto di esercitare la propria libertà in modi estremi. È quella che Massimo Recalcati ha definito la «nuova religione libertina» del nostro tempo, nel quale «non esiste più un limite che non sia possibile valicare», «la trasgressione è divenuta un obbligo che non implica alcun sentimento di violazione», e alla fine comporta «la dissoluzione di ogni tabù» (I tabù del mondo, Einaudi 2017). Ora, che questa visione del mondo e questa interpretazione dell'esistenza, che porta a considerare normali lo sballo e il divertimento estremi, senza alcun rispetto per la propria integrità mentale e per la propria reputazione, sia fatta propria da una parte del mondo giovanile è cosa che lascia perplessi, ma si può anche subire, se non accettare, come si subisce un cataclisma su cui non si ha alcun potere, o che semplicemente non si comprende. Ma che questa esaltazione della trasgressione e dell'imprudenza venga dal mondo degli adulti, che pure avrebbero qualche responsabilità educativa e di guida, lascia increduli e sgomenti. Eppure è quel che succede. Dopo il suicidio di Tiziana, la ragazza che non ha retto alla circolazione di un video hard e si è tolta la vita, mi è capitato di leggere (a firma Roberto Saviano), affermazioni come queste: «milioni di teenager usano Snapchat per fare sexting cioè per scambiarsi foto sessualmente esplicite»; in quel contesto «fotografarsi o filmarsi mentre si è in intimità è asso lulamente normale»; «gli adolescenti vivono la loro sessualità come qualcosa di dirompente e trasgressivo, facciamogli sapere che tutto questo è normale»; «non lei doveva pensare alle conseguenze». La realtà, temo, è che negli ultimi decenni una porzione considerevole del mondo adulto ha trovato comodo, comodissimo, ultrarilassante rinunciare a ogni forma di interferenza nella libertà dei giovani, fin dalla loro più tenera età: da piccolissimi piazzati davanti a un televisore, poi affidati alle amorevoli attenzioni di videogiochi e smartphone, infine gettati nel mondo dei coetanei, senza limitazioni, ne controlli, ne guida. Con la scusa di non poter giudicare, di non voler reprimere, di dover sempre e comunque preservare la serenità dei propri pargoli, gli adulti hanno costruito un modello di relazioni fra le generazioni semplicemente aberrante. Un modello per il quale i genitori sono iperprotettivi quando non lo dovrebbero essere (ad esempio quando un insegnante punisce un ragazzo), e completamente assenti quando, viceversa, dovrebbero proteggere i giovani da sé stessi, ponen do limiti e fissando regole anziché assecondarne i pericolosi vissuti di invulnerabilità. Non solo per proteggerli da eventi estremi, quali sono quelli di cui si parla in questi giorni, ma per metterli in grado di affrontare le sfide dello studio, del lavoro, della vita in generale, tutti compiti per cui sono sempre più sovente impreparati. Come dice la protagonista di «Va' dove ti porta il cuore» (il più celebre dei romanzi di Susanna Tamaro), una madre amaramente pentita di non aver interferito nella vita di una figlia fragile, incerta, e alla fine vittima del suo sogno di libertà: «Dietro la maschera della libertà spesso si nasconde la noncuranza, il desiderio di non essere coinvolti». Mentre l'amore, il vero amore di una madre o di un padre, «non si addice ai pigri, per esistere nella sua pienezza alle volte richiede gesti precisi e forti».
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